Ignace De La Potterie. GESÙ E I SAMARITANI

La scena del pozzo di Giacobbe è una delle più umane e più belle del quarto vangelo'. Per la ricchezza dei suoi richiami biblici, per la poesia della sua cornice, - poesia degli incontri vicino al pozzo, poesia delle sorgenti miracolose, della acque zampillanti, delle messi biondeggianti - per la delicatezza e la profondità del dialogo tra Gesù e questa donna, fino a questo momento una sconosciuta e tra poco una credente, per l'ampiezza infine delle prospettive religiose che apre sulla missione della Chiesa e sulla adorazione del Padre nello Spirito e nella verità, questa pagina di s. Giovanni lascia in tutti quelli che l’hanno letta e meditata una impressione indimenticabile. La sua importanza, tuttavia, è innanzitutto di ordine teologico. Si è talvolta voluto dare a questo racconto un'interpretazione psicologica e pastorale: Gesù ci indicherebbe in che modo si debba parlare a un'anima peccatrice per avviarla alla conversione. Altri propongono un'esegesi sacramentale: l'acqua viva sarebbe l'acqua del battesimo, il cibo di cui parla Gesù in 4, 31-34 evocherebbe l'Eucaristia. Ma nessuna di queste due spiegazioni rispetta appieno i dati del testo. Il punto di vista dell'autore è essenzialmente cristologico; presenta qui un aspetto del tema fondamentale del suo vangelo: la risposa alla domanda chi è Gesù? e l'accesso degli uomini alla fede.

Questo sviluppo del tema si può cogliere pienamente solo se si inserisce il passo nell'insieme più vasto in cui l'ha posto Giovanni, quello dei capp. 2-4. La sezione si apre con un racconto, un « segno » di rivelazione messianica: il« segno » del Tempio a Gerusalemme (2, 13-22). Nei dialoghi successivi i tre personaggi che si intrattengono con Gesù rappresentano tre tipi di accesso alla fede: Nicodemo (3, 1-21); la donna che Gesù incontra al pozzo di Giacobbe(4, 1-42); il funzionario regio di Cana di Galilea (4, 43-54). Tutti e tre, si direbbe, hanno valore rappresentativo: Nicodemo, Giudeo di Gerusalemme e« maestro di Israele » (3, 10), incarna agli occhi di Giovanni il giudaismo ufficiale; nella persona della donna di Sichar (4, 5), egli vede avvicinarsi, per così dire, a Gesù il giudaismo scismatico dei Samaritani; il funzionario di Cana,probabilmente un pagano, rappresenta per l'evangelista il mondo non giudaico. L'episodio della Samaritana è anch'esso composto con la massima cura. Comprende essenzialmente due grandi dialoghi inquadrati da alcuni versetti narrativi.

1. Introduzione: Gesù ritorna in Galilea e attraversa la Samaria; arriva al pozzo di Giacobbe (vv. 1-6).2. Dialogo con la Samaritana (7-26): - Gesù promette l'acqua viva (7-15); - Gesù profeta (16-19); - la rivelazione di Gesù Messia (20-26). -3. Transizione: ritorno dei discepoli; partenza della donna; arrivo dei Samaritani (27-30).4. Dialogo con i discepoli (31-38): - il cibo di Gesù (31-34); - la mietitura messianica (35-38).5. Conclusione: i Samaritani credono in Gesù (39-42). Tutti e due i dialoghi si sviluppano secondo uno schema letterario che caratterizza il vangelo nel suo insieme: l'alternanza delle rivelazioni di Gesù e dell'incomprensione degli uomini. Nei vv. 7-15, la Samaritana pensa esclusiva-mente all'acqua del pozzo, mentre Gesù si sforza di farle capire che l'acqua viva che le sta promettendo è di altra natura: è un'acqua che estinguerà per sempre la sete e che zampillerà, nell'uomo stesso, per la vita eterna. Nell'ultima parte del dialogo (vv. 20-26), la donna pensa esclusivamente al problema che divide Giudei e Samaritani, quello del luogo del vero culto: bisogna adorare Dio sul monte Garizim o nel tempio di Gerusalemme? Ma Gesù le rivela che l'adorazione del Padre nell'era messianica si praticherà nello Spirito e nella Verità. Anche i discepoli daranno prova di incomprensione. Ritornando dalla città, si sono preoccupati unicamente di far prendere a Gesù del cibo materiale. Ma egli risponde loro che il suo vero cibo è adempiere la sua missione (vv. 31-34). Nei vv. 35-38, infine, Gesù si riferisce a una frase dei discepoli a proposito dei mesi che ancora li separano dal tempo della mietitura; è l'occasione per lui di aprire,la prospettiva su un'altra mietitura, la mietitura messianica, in cui il mietitore accumulerà grano per la vita eterna.

I. DIALOGO CON LA SAMARITANA (vv. 7-26)

Il colloquio tra Gesù e la Samaritana evoca diverse scene bibliche, tutte rappresentanti l'incontro vicino a un pozzo tra un viandante stanco e le donne che vengono ad attingere'. Gesù, seduto sull'orlo del pozzo, si rivolge alla donna di Sichar: « Dammi da bere » (v. 7). Fin dall'inizio, viene affrontato il primo tema del dialogo, quello dell'« acqua »: Gesù coglie l'occasione per rivela-re alla Samaritana il mistero dell'acqua viva. Ma essa si mantiene sul piano dei rapporti umani: « Come mai tu che sei Giudeo, chiedi da bere a me, una Samaritana? (I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani) » (v. 9) &:Nella sua risposta, Gesù lascia immediatamente intuire. che intende parlare di una realtà misteriosa di cui l'acqua del pozzo è solo il simbolo: « Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice, "Dammi da bere", saresti stata tu a pregarlo ed egli ti avrebbe dato dell'acqua viva » (v. 10).1. Il dono dell'acqua viva (vv. 7-15)

a) Bisogna vedere in queste due metafore, quella del « dono di Dio » e quella dell'« acqua viva », due realtà distinte? Alcuni l'hanno pensato. Tuttavia la maggior parte dei commentatori ammette giustamente che il dono di Dio è proprio l'acqua viva. Per via del passo parallelo di 7, 37-39, molti autori afferma-no che Gesù intendeva parlare qui dello Spirito Santo; ma è concepibile che Gesù avesse pensato di concedere a questa donna il dono dello Spirito ancor prima della risurrezione? Per altri, il dono dell'acqua viva rappresenterebbe piuttosto la rivelazione che Gesù fa di se stesso. A quanto risulta, bisogna cercare la risposta proprio su questa via, però distinguendo, come vedremo, due tappe successive nell'economia della rivelazione: il tempo di Cristo e il tempo dello Spirito. Il testo stesso ci offre già una preziosa indicazione: secondo la dichiarazione di Gesù alla donna, « conoscere il dono di Dio » significa sapere « chi è lui » (Gesù). Questa progressiva scoperta del mistero di Gesù, questa profonda conoscenza di ciò che egli è, in definitiva è proprio il dono di Dio, il dono dell'acqua viva. Una breve analisi dei due temi lo dimostrerà più chiaramente.

b) Secondo gli scritti giudaici, il dono di Dio per eccellenza era la legge di Mosè . Il prologo di Giovanni fa eco a questa tradizione: « La legge fu da tatramite Mosè » (1, 17). Altrove, nel quarto vangelo, il verbo « dare » viene usato frequentemente. Un'unica volta, ha per oggetto il Paraclito (14, 16): in quel discorso dopo la Cena, il verbo è al futuro e si riferisce al tempo della Chiesa . Questo brano però non può in pratica servire da parallelo al nostro v. 10, del c. 4. Secondo 3, 16, Dio ha dato il suo Figlio unigenito. Più spesso, il verbo si riferisce alle parole che il Padre ha dato al Figlio e il Figlio ai discepoli(17, 8. 14), oppure al comandamento del Padre o del Figlio (12, 49; 13, 34;14, 31). L'espressione di 4, 10 sintetizza questi dati. Il « dono di Dio » non è più come nel giudaismo la legge di Mosè; è la legge nuova, la rivelazione che perviene alla sua conclusione in Gesù. Questa parola di Gesù, la rivelazione definitiva dei tempi messianici, porta a perfezione la rivelazione incompleta del Sinai. Secondo 1, 17, quel che deve ormai sostituire la legge di Mosè, è la rivelazione apportata da Gesù, è la Verità, è lui stesso (14, 6). Promettendo alla Samaritana il dono di Dio, Gesù lascia quindi intendere che si sarebbe manife-stato a lei; infatti, alla promessa ancora vaga del v. 10: « Se tu conoscessi... chi è colui che ti dice... » fa riscontro la risposta del versetto conclusivo: « Sono io(il Messia), io che ti parlo » (v. 26). Il significato della metafora del v. 10 è stato spiegato in termini eccellenti da un esegeta bizantino, Eutimio Zigabeno:« Se tu conoscessi il dono di Dio... Intendeva parlare di se stesso, che si sarebbe progressivamente manifestato alla donnà; essa si dimostrava degna di un simile insegnamento ».

c) Il simbolo dell'acqua viva è più importante del precedente, perché Gesù lo utilizzerà di nuovo al v. 14, poi ancora una volta più in là nel tempo,nella grande rivelazione pubblica della festa dei Tabernacoli (7, 38 s.). In senso materiale, l'acqua viva indicava l'acqua corrente, in contrapposizione all'acqua delle cisterne (cfr. Gn 26, 19; Lv 2, 13). Tra i profeti, diventa uno dei grandi simboli dei beni messianici: « In quel giorno, acque vive scaturiranno da Gerusalemme, metà verso il mare orientale, metà verso il mare occidentale; sia d'estate che d'inverno resteranno vive » (Zc 14, 8; cfr. 47, 1; GI 4, 18). Ma nella letteratura sapienziale il significato dell'immagine si va precisando: l'acqua viva designa le correnti della sapienza, oppure l'insegnamento che si trae dalla Legge (Pro. 13, 14; 16, 22: 18, 4; Sir 24, 30 s.).

Legge simbolismo riappare in taluni scritti giudeo-cristiani, per esempio nelle Odi di Salomone: « Egli mi riempie di parole di verità, affinché io le proclami. E come l'acqua che scorre, la verità sgorgò dalla mia bocca » (12, 1-2). Da notare che nei testi precristiani l'acqua viva non è mai un simbolo diretto dello Spirito. Negli scritti che abbiamo citato, essa sta ad indicare la sapienza, la verità, le ricchezze contenute nella rivelazione. Questa è l'interpretazione che più si adatta alle parole di Gesù alla Samaritana in Gv 4, 10: l'acqua viva sta a simboleggiare « la dottrina vivificante apportata dal Cristo-Sapienza (cfr. 4, 25) », la verità che egli proclama (1, 17), la rivelazione che apporta nella propria persona (14, 6). Ritroviamo l'esegesi proposta più sopra per « il dono di Dio »; questo conferma che le due metafore indicano un'unica e medesima realtà.

d) Si fa avanti tuttavia un'obiezione. In 7, 38-39, Gesù riferisce a se stesso una frase della Scrittura: « Dal 'suo seno sgorgheranno fiumi d'acqua viva ». E l'evangelista aggiunge: «Egli parlava dello Spirito che avrebbero ricevuto coloro che avessero creduto in lui; perché non c'era ancora Spirito, in quanto Gesù non era stato ancora glorificato ». È comprensibile che numerosi esegeti giudichino di dover adottare la stessa interpretazione per l'acqua viva di cui Gesù parla al c. 4, nel colloquio con la donna di Samaria: l'acqua viva starebbe ad indicare perciò lo Spirito Santo. Tuttavia la prospettiva dei due passi è molto diversa. In 7, 38-39, Giovanni spiega personalmente che Gesù intendeva parlare del dono dello Spirito, che i credenti avrebbero ricevuto a partire dalla sua glorificazione. All'inizio del colloquio con la Samaritana, Gesù parla al presente: nella prospettiva giovannea, non può trattarsi qui dello Spirito Santo. Giovanni fa una netta distinzione tra due tempi successivi nello sviluppo della rivelazione. Nell'immediato contesto del colloquio al pozzo di Giacobbe, l'acqua viva di cui parla Gesù è la progressiva rivelazione del proprio mistero. Ma subito dopo amplia notevolmente la prospettiva; a partire dal v. 13, non si tratta più della donna, ma di « chiunque » desideri bere; e al v. 14, tutti i verbi sono al futuro: « Chi berrà dell'acqua che io darò, non avrà mai più sete:... (essa)diverrà in lui sorgente d'acqua zampillante in vita eterna ». Qui, e solo qui, la'prospettiva combacia con quella della dichiarazione di Gesù alla festa dei Tabernacoli (7, 38-39); si tratta ormai del tempo che ha inizio con l'« Ora »di Gesù, del tempo in cui la rivelazione viene resa presente nella Chiesa grazie all'azione dello Spirito.

Certi scritti giudaici ricollegano questa interpretazione a un'esegesi allegorica dei pozzi di cui parla la Bibbia (soprattutto Nm 21, 17-19): secondo questa tradizione, a Israele è stato donato un pozzo misterioso, un pozzo da cui sgorgano fiotti d'acqua viva; il pozzo è la legge; l'acqua viva che ne scaturisce è la dottrina di sapienza che si ottiene scrutando la Scrittura.

Assistiamo perciò in s. Giovanni ad un notevole approfondimento della metafora dell'acqua viva. All'inizio del dialogo con la donna di Samaria, quest'acqua misteriosa, conformemente al significato che rivestiva nella tradizione precristiana, simboleggia semplicemente la parola di Gesù, la sua verità. Ma questa parola, questa verità, non può rimanere esterna all'uomo: come la sa-pienza, l'acqua viva deve essere « bevuta » dal credente (4, 14a; 7, 37; cfr. Pro9, 18 [LXX]; Sir 15, 3); solo a questa condizione diverrà « in lui » (Gv 4, 14b)una sorgente zampillante. Questo significa, senza metafora, che la parola, la rivelazione di Gesù, deve essere interiorizzata nel cuore del discepolo (5, 38).In ciò precisamente consisterà l'azione dello Spirito della verità (14, 26). La metafora dell'acqua viva assume così una risonanza pienamente eccle-siale, il che le assicura la sua vera portata per la vita dei cristiani: l'acqua viva a cui devono abbeverarsi, è la verità di Gesù, è il suo messaggio appro-fondito dallo Spirito; è Gesù stesso che, attraverso il vangelo, si svela pro-gressivamente ai credenti, per comunicare loro la vita divina.

2. Gesù profeta (vv. 16-19)

Anche questa volta, la reazione della Samaritana dimostra una totale in-comprensione: essa chiede a Gesù di darle di quell'acqua, per non dover più venire al pozzo ad attingere (v. 15). Gesù non insiste oltre e imprime brusca-mente alla conversazione un tono nuovo: « Va', chiama tuo marito e torna qui »(v. 16). E quando la donna pretende di non avere marito, Gesù controbatte che ne ha avuti cinque: l'uomo col quale vive non è suo marito. Parecchi autori hanno creduto di dover interpretare questa risposta di Gesù come un'allegoria: la donna con i suoi «cinque mariti» rappresenterebbe la Samaria, dove si erano stabilite diverse tribù babilonesi, ognuna con il proprio dio (il termine ebraico ba'al, « padrone », poteva designare tanto un. dio pagano che un marito). Ma quest'esegesi non trova nessuna base d'appoggio nell'AT, neppure nel contesto immediato. L'intendimento di Gesù sarebbe stato quello« di destare nella donna la coscienza morale» (Lagrange)? Il seguito del raccon-to non fa trasparire in lei nessun segno di pentimento. Costatando che Gesù le sta svelando tutto ciò che essa ha fatto (cfr. v. 29), arriva piuttosto alla conclusione che egli è un profeta, un uomo a conoscenza dei segreti del passato o del futuro (cfr. 2, 25). Svelando alla Samaritana il segreto della sua vita privata, Gesù rivela già se stesso. Il suo scopo non è tanto portare questa donna alla conversione quanto prepararla alla scoperta del proprio mistero. Sarà il tema dei versetti successivi.

3. Gesù si rivela come Messia (vv. 20-26)

Una volta constatata la chiaroveggenza del suo interlocutore, la donna gli 'sottopone il vecchio problema che divideva Giudei e Samaritani: bisogna adorare Dio su quella montagna o nel tempio di Gerusalemme? Per i Samaritani, il Garizim era una montagna sacra: dopo il diluvio, Noè vi aveva eretto un altare; lì inoltre essi situavano il sacrificio di Abramo,.e sempre lì, secondo il Pentateuco samaritano (Dt 27, 4-8), gli Ebrei avevano offerto il loro primo sacrificio dopo l'ingresso nella Terra Santa. La gente di Samaria vi aveva costruito un tempio, che era divenuto il concorrente del tempio di Gerusalemme, perché,secondo il Deuteronomio (12, 1-14), in Israele poteva esserci un solo santuario. La domanda rivolta dalla Samaritana era perciò attualissima: qual è il luogo del vero culto? Gesù risponde con tono grave: «Donna, credimi... ». Con ciò non inten-de solo chiedere alla sua interlocutrice di avere fiducia in lui: le rivolge un vero e proprio appello alla fede, le chiede di accogliere la rivelazione che sta per farle, sul vero culto dei tempi messianici: « Viene l'ora (v. 21)... Viene l'ora; e noi ci siamo... » (v. 23). Con lui, « si conclude un'epoca, ne inizia un'altra: è finito il tempo di un culto legato a una montagna, superato il conflitto dei templi » (D. Mollat). Ormai, dice Gesù, « i veri adoratori adoreranno il Padre nello Spirito e nella Verità » (v. 23). A partire dalla Riforma, si è stranamente abusato di questa formula come se equivalesse a una condanna di ogni culto esteriore 16. Ma non è questo il contenuto del testo evangelico. « In spirito » non significa: « in modo spirituale, non corporale », come hanno a volte ritenuto i Padri greci, sotto l'influenza del dualismo platonico; lo spirito non designa neppure lo spirito dell'uomo o l'anima umana: Gesù non intende insistere qui sull'interiorità della preghiera cristiana. Il pneuma di cui parla è lo Spirito di Dio (cfr. v 24), lo Spirito che Dio comunica all'uomo. La preghiera nello Spirito è una preghiera suscitata nel cuore dei credenti dallo Spirito Santo (cfr. anche Rm 8, 26-27). I commentatori medievali del quarto vangelo non avevano avuto dubbi in proposito, come per esempio G. Scoto Eriugena: «Adoreranno nello Spirito, coloro che saranno illuminati dallo Spirito Santo ». La seconda parte della formula, ancora più della prima, è stata spesso alterata nel suo vero significato; per molti, rappresenterebbe un'espressione avverbiale, come nelle lingue moderne (« in verità »): il culto « in verità»sarebbe il culto « vero ». Per altri, soprattutto i Padri, la verità qui è la « realtà » del culto cristiano, contrapposto alle sue prefigurazioni sotto l'antica Legge. Ma per s. Giovanni la parola « verità » non significa realtà; sta ad indicare la rivelazione messianica, rivelazione che si identifica con il messaggio e la persona dell'uomo Gesù (14, 6) 19. Sotto l'azione dello Spirito, questa verità di Cristo è presente ed attiva nel cuore del credente (2 Gv 2); la verità diventa così la sorgente segreta della sua vita cristiana: ispira la sua pratica della carità (1 Gv3, 18-19; 2 Gv 1, 2), il suo desiderio di santificazione (17, 17-19), la sua adora-zione del Padre (4, 23-24). La fine del dialogo, a questo punto, si riallaccia all'inizio: « lo Spirito e la Verità » non sono altro che l'acqua viva di cui Gesù aveva parlato prima. L'adorazione dei tempi messianici è quella che è ispirata dalla la rivelazione di Cristo sotto l'azione dello Spirito di verità; questa adorazione del Padre, questa preghiera profonda, scaturisce spontaneamente da ogni cuore cristiano in cui arda la Verità. Il tema introdotto dalla donna al v. 20 non viene quindi tralasciato: si tratta sempre del luogo del vero culto. Ma Gesù rivela alla Samaritana che,nell'era messianica, questo luogo sarà spirituale: sotto l'azione dello Spirito,bisogna ormai pregare il Padre « nella Verità », in quella Verità che è Gesùstesso . La vera preghiera è possibile solo nella comunione con il Cristo-Verità; questa unione con Cristo costituisce lo spazio intimo della preghiera cristia-na; essa si pratica « in Christo »; Gesù è il nuovo Tempio, che sostituisce da questo momento il santuario del monte Garizim e quello di Gerusalemme.Questa preghiera inoltre ha una dimensione trinitaria: ispirata dallo Spirito della verità, si pratica in unione con il Cristo, il Figlio di Dio, e si rivolge al Padre. È una preghiera filiale, la preghiera tipica dei figli di Dio. Ruperto diDeutz commentava il versetto in termini eccellenti: « Adorabitis, ínquit, Patrem, Spiritum adoptionis filiorum ab ipso percipientes... Patrem enim in Spiritu adorare quid est, nisi spiritum adoptionis filiorum accepisse in quo clama-mus: Abba, Pater (Rm 8)? ». Lo stesso, più vicino a noi, il P. Libermann:« Le loro adorazioni si effettueranno nello Spirito Santo... E in verità, unendo le loro adorazioni a quella del Figlio di Dio » 22. La donna di Sichar non capisce granché di tutto questo discorso: « Ioso che deve venire il Messia, colui che viene chiamato il Cristo; quando verrà, ci svelerà tutto » (v. 25). Se non afferra il senso delle parole del suo interlocutore, ne viene però destata l'attenzione sulle questioni religiose, la sua speranza adesso è tesa verso il Messia, come verso colui che apporterà la rivelazione liberatrice. Non occorre altro. Gesù può farle la dichiarazione decisiva: « Sono io, io che ti parlo ». Il messaggio di luce che la Samaritana attendeva le è concesso di colpo: Gesù Messia si manifesta a lei; i tempi sono compiuti; è venuta l'ora dell'adorazione del Padre « nello Spirito e nella Verità ».

II. DIALOGO CON I DISCEPOLI (vv. 31-38)

A questo punto, ritornano i discepoli dalla città. Rimangono sorpresi nel vedere Gesù parlare con una sconosciuta: secondo le usanze giudaiche, un uomo non doveva intrattenersi in pubblico con una donna, per evitare le chiacchiere della gente. Quanto alla Samaritana, dimenticando di essere venuta al pozzo per attin-gere acqua, lascia lì la sua brocca e corre direttamente verso Sichar. Entusiasta,dice a quelli che incontra: « Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quel che ho fatto. Non sarà per caso il Cristo? » (v. 29). Già in precedenza,sentendo Gesù parlarle dei suoi vari mariti, aveva capito che doveva essere un profeta. La rivelazione che Gesù le fa in seguito di se stesso produce un certo effetto: senza ancora credere veramente in lui, sospetta che potrebbe essere il Messia. Ma, paradosso tipicamente femminile, quel che glielo fa pensare non è tanto la dichiarazione pur tuttavia molto precisa di Gesù, quanto quello che le ha detto su lei stessa. Nell'apprendere che la donna potrebbe aver proprio incontrato il Messia, la gente, in fretta, « uscì dalla città e si incamminava verso di lui ». Nel frattempo i discepoli avevano intavolato una conversazione con il Maestro. Fanno vedere le provviste che si sono portati dietro e lo sollecitano a mangiare. Più avanti (v. 35), alludendo ai campi che hanno attraversato per ritornare vicino al pozzo, parleranno della mietitura che si annuncia. Tutte e due queste dichiarazioni molto umane rappresentano per Gesù l'occasione di elevare il livello del discorso e orientare lo sguardo dei discepoli verso i tempi futuri.

1. Il vero cibo di Gesù (vv. 31-34) Si ritrova qui, con una leggera variante, il procedimento letterario citato all'inizio, quello delle rivelazioni di Gesù che si alternano all'incomprensione degli uomini. È lo schema della rivelazione in due tempi: prima rivelazione(misteriosa) - incomprensione - seconda rivelazione (chiara). Per avviare il dialogo con la Samaritana, Gesù aveva chiesto da bere. Era per lui l'occasione per promettere alla donna il dono dell'acqua viva (v. 10).Qui invece il punto di partenza del dialogo viene fornito dai discepoli stessi:«.Rabbi, mangia ». Gesù risponde in maniera enigmatica: « Io devo mangiare un cibo che voi non conoscete ». Nella tradizione sapienziale, il pane, come l'acqua e il vino, è un simbolo del dono della sapienza e della legge. La Sapienza invita l'uomo al suo banchetto: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che vi ho preparato » (Pro9, 5); essa « lo nutre col pane della prudenza » (Sir 15, 3; cfr. 24, 1). Ma la sapienza giudaica non era semplicemente una dottrina; era orientata verso l'azione e doveva trasformare la vita. Si capisce perciò come mai Gesù applichi qui la metafora del cibo all'adempimento della sua missione: « Il mio cibo è che io faccia la volontà di colui che mi ha mandato e conduca a termine la sua opera » (v. 34). Le due parti di questa risposta non sono dei semplici sinonimi: la seconda dice più della prima. Gesù è sceso dal cielo per fare la volontà di colui che l'ha mandato(6, 38). La volontà divina, egli la « cerca » (5, 30), come un cibo di cui non può fare a meno, come un oggetto intensamente desiderato; analogamente, « cerca »solo la gloria di colui che l'ha mandato (7, 18; 8, 50). Questo verbo « cercare »e la metafora del « cibo » rivelano l'aspetto fondamentale della vita di Gesù, la molla profonda che anima tutta la sua azione. Non è quindi senza ironia che l'evangelista ha redatto il v. 27. Dopo aver affermato che i discepoli erano rimasti meravigliati nel vedere Gesù parlare con una donna, prosegue: « Tuttavia nessuno disse: "Che cosa cerchi?" o "Di che cosa parli?" ». Non avevano capito quel che Gesù cercava veramente. Con questa frase di transizione, Giovanni ricollega abilmente il colloquio con la Samaritana con il dialogo tra Gesù e i discepoli. Il significato profondo del primo episodio è contenuto nel secondo; conversando con la donna di Sichar, malgrado i pregiudizi, Gesù faceva la volontà del Padre suo, cercava già di compiere la sua opera. Gesù parla spesso delle « opere » che compie. Quando il termine, come qui, è usato al singolare, indica l'insieme dell'attività di Gesù, l'opera di rivelazione e di salvezza: quest'opera è quella del Padre; rivela perciò l'unità di Gesù con suo Padre (cfr. 10, 38). Questo accenno all'« opera » si ritrova solo nella preghiera sacerdotale, nel contesto immediato dell'« ora »: « Io ti ho glorificato sulla terra, portando a termine l'opera che mi hai dato da compiere » (17, 4) 24.In 4, 34, quando parlava ai discepoli dell'opera divina che voleva compiere,Gesù apriva una prospettiva sull'ora della Passione è della Risurrezione, nonché sul tempo della Chiesa. Il v. 34 del cap. 4 di Gv è uno dei testi-chiave del quarto vangelo sulla totale obbedienza di Gesù a colui che l'ha mandato. Gesù non possiede nulla in proprio; è solo l'inviato di Dio, i suoi pensieri e i suoi progetti sono i pensieri e i progetti del Padre suo; le Parole che trasmette non sono le sue, bensì quelle del Padre (3, 34; 7, 16; 8, 26. 38. 40; 14, 10. 24; 17, 8. 14), non compie opere personali, ma le opere del Padre (5, 17. 19-20. 30. 36; 8,28; 10, 25.37; 14, 10; 17, 4), non fa la propria volontà, ma la volontà di colui che l'ha mandato (4, 34; 5, 30; 6, 38). Un annullamento così radicale lascia intravedere qualcosa del mistero di Gesù. Certo, quest'obbedienza è quella dell'uomo Gesù. Però, come hanno perfettamente capito Origene e s. Cirillo di Alessandria, una unione così perfetta tra la volontà di Gesù e quella del Padre si può spiegare soltanto con la sua filiazione divina e con la sua unità sostanziale con il Padre. Secondo Origene, se la volontà del Padre costituisce per Gesù un autentico cibo, ' è perché ha fatto talmente sua la volontà divina da non possedere più per così dire volontà propria: la perfetta unione tra la volontà umana di Gesù e la volontà di Dio è la manifestazione di un'unità ancor più profonda, l'unità tra il Padre ed il Figlio, perché la volontà del Figlio è identica a quella del Padre; per questo può affermare: « Il Padre ed io siamo uno » (10, 30). S. Cirillo ha una formula ancora più ardita: « Il Figlio è la volontà vivente e sostanziale del Padre ». Ma sottolineando il proprio desiderio di compiere l'opera di colui che l'ha mandato, Gesù introduce già l'ultima parte del discorso e orienta il pensiero dei discepoli verso la missione cristiana.

2. La mietitura messianica (vv. 35-38)

I versetti successivi sono abbastanza oscuri e hanno dato luogo ad interpretazioni di ogni genere 27. Gesù cita due volte (vv. 35a e 37b) un detto popolare, oppure si riferisce, per lo meno nel primo caso, a una frase dei discepoli? A chi si riferisce parlando del seminatore (v. 36c)? Chi è il mietitore (v. 37b). Chi sono gli « altri » che hanno faticato prima che i discepoli raccolgano il frutto delle loro fatiche (v. 38c)? È assolutamente inverosimile che « il seminatore » del v. 36 possa essere diverso da quello del v. 37. Su questo punto come su altri, cercheremo di mettere in luce la profonda unità dei quattro versetti; ma dimostreremo anche che l'opera compiuta da Gesù viene descritta qui nella prospettiva del lavoro apostolico che dovranno a loro volta compiere i discepoli. « Ancora quattro mesi, prima che venga la mietitura » (v. 35). A volte si interpretano queste parole come un proverbio rurale. Ma la frase introduttiva(« non dite forse voi...? »), praticamente identica a quella che apriva i vv. 31 e33 (« i discepoli lo pregavano dicendo »; « i discepoli dicevano ») presuppone che le parole in tal modo annunciate abbiano ogni volta una analoga funzione nell'ambito del colloquio. Giovanni qui si propone, non di citare un proverbio corrente (d'altronde non attestato da nessuna parte), ma di riferire una riflessione degli stessi discepoli, per illustrare una volta di più la loro mancanza di comprensione. Guardando i campi circostanti, avevano detto a Gesù che ci sarebbero voluti ancora quattro mesi prima della mietitura. Ma Gesù introduce la propria risposta con l'antica formula biblica: « Alzate gli occhi e guardate »;nell' AT, era un invito a contemplare la grandezza di Dio (Is 40, 26), l'universalità delle promesse fatte ad Abramo (Gn 13, 14) e, più ancora, il raduno delle nazioni (Is 49, 18; 60, 4; Bar 5, 5-6). In Gv 4, 35 l'applicazione di queste parole è trasparente. Gesù si colloca di colpo sul piano spirituale. Contrariamente a quanto pensano i discepoli, i campi sono fin d'ora biondeggianti per il raccolto: i Samaritani che si stanno avvicinando e che ben presto crederanno in lui (v. 41) rappresentano per Gesù le primizie della mietitura messianica; con essi incomincia a realizzarsi il raduno delle nazioni predetto dai profeti. La mietitura, nella Bibbia, ha un duplice significato: il taglio del grano può designare il giudizio di Dio; altrove il raccolto simboleggia la gioia della salvezza (Is 9, 2; Am 9, 13; Sal 126, 5), il ritorno dei dispersi (Is 27, 12-13) e nel NT i frutti della missione (Mt 9, 37) 28.Questo è il nostro caso: Gesù evoca la gioia del mietitore, la sua ricompensa, il grano che ammassa per la vita eterna. Come tanto spesso in s. Giovanni, le realtà escatologiche si trovano ad essere anticipate nella missione di Gesù. Ci si deve chiedere se qui il seminatore e il mietitore rappresentino qualcuno, o siano semplicemente elementi descrittivi che servono a sviluppare il tema della mietitura. La tendenza simbolica del quarto vangelo ci invita piuttosto a interpretarli entrambi in un senso allegorico; l'interpretazione deve inoltre tener conto del principio ricordato al v. 37 in un detto: «Altro è il seminatore, altro il mietitore ». Il seminatore non indica i predecessori di Gesù(i Profeti o Giovanni Battista), e neppure il Padre, ma Gesù stesso, la cui parola, secondo il vangelo, è un seme (Lc 8, 11); infatti, il colloquio che aveva avuto con la donna di Samaria stava già producendo i suoi primi frutti. L'immagine del mietitore, allora, non può che riferirsi ai discepoli; sebbene non li abbia ancora inviati in missione, Gesù vede la propria predicazione prolungarsi nella loro (cfr. v. 38). «Seminatore e mietitore si rallegrano insieme » (v. 36): Gesù, da questo momento, vede già con gioia i frutti della missione cristiana. « Io vi ho mandati a mietere dove non avete faticato » (v. 38). Il quarto vangelo non contempla nessuna missione dei discepoli durante la vita terrena di Gesù: l'invio in missione ha luogo il giorno di Pasqua (20, 21). Per capire le parole di 4, 38, bisogna perciò collocarsi, con l'evangelista, dal punto di vista della predicazione cristiana agli inizi della Chiesa: i missionari devono tenere sempre presente di essere stati inviati da Cristo. Mieteranno « dove non hanno faticato ». Anche qui bisogna vedere un'allusione all'opera di Gesù. Il verbo « faticare » descrive in genere il lavoro apostolico, soprattutto nel quadro della missione paolina (1 Cor 15, 10; 16, 16; Gal 4, 11; Fil 2, 16; Col 1, 29; 1 Tm 5, 17); Giovanni, a sua volta, lo usa qui (negativamente) per i discepoli. Ma all'inizio della scena, aveva riferito il verbo a Gesù stesso: Gesù era « affaticato dalla strada » (v. 6); si può pensare che, per l'evangelista, fosse perché si era «affaticato nelle seminagioni » (D. Mollat). L'attività di Gesù, che l'avrebbe condotto alla croce, avrebbe prodotto tutti i suoi frutti nella missione dei discepoli 29, anche la sua morte

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ESEGESI

sarebbe stata una semente (12, 24. 32-33); ma essi avrebbero conosciuto la gioia del raccolto. (L'evangelista infatti, dicendo al v. 6 che « era circa l'ora sesta », vuole probabilmente evocare la scena del Lithostrotos durante la Passione (19, 13): anche lì, « era circa l'ora sesta », l'ora in cui iniziava la Pasqua ebraica, che sarebbe stata la Pasqua della salvezza. Inoltre, secondo le spiegazioni dello stesso Giovanni, l'acqua viva promessa alla Samaritana (4, 14) sarebbe stata concessa in pienezza solo sulla croce (cfr. 7, 39; 19, 34).

Alla fine del v. 38, l'identificazione delle persone si complica, perché il verbo adesso ha il soggetto al plurale: « Altri hanno faticato, e voi raccogliete il frutto delle loro fatiche ». Questi « altri » non si possono più interpretare come Gesù solo. Secondo un'esegesi frequente presso gli antichi, designano quelli che l'hanno preceduto: i Patriarchi e i Profeti; certuni vi hanno visto Giovanni Battista e i suoi discepoli. Ma il parallelismo tra « seminare » e « faticare » ci impedisce di pensare all'epoca anteriore a Cristo. Il testo sottolinea il contrasto tra la prima predicazione cristiana (« seminare », « faticare ») e l'abbondanza dei suoi frutti nella Chiesa (« mietere »). Gesù è il primo di quegli « altri »,cioè di quegli operai che hanno faticato per predicare la parola. Ma la prospettiva immediatamente si allarga, come dimostra il cambiamento dei tempi 30: dalla predicazione di Gesù (cfr. il colloquio con la Samaritana), l'attenzione si sposta verso la missione cristiana. Forse Giovanni pensa qui alla prima missione in Samaria, riferita negli Atti (8, 4-17): il vangelo vi era stato inizialmente predicato dagli ellenisti, soprattutto da Filippo; però il dono dello Spirito venne conferito ai Samaritani solo dagli apostoli Pietro e Giovanni 31. Gli « altri » che hanno faticato prima degli apostoli sono quelli che, in precedenza, hanno proclamato la Buona Novella: innanzitutto Gesù stesso, e dopo di lui i primi predicatori del vangelo. Presso il pozzo di Giacobbe, Gesù aveva gettato le basi della missione cristiana.

CONCLUSIONE

Fino a questo momento si poteva pensare che il colloquio con la Samarita-na e il dialogo con i discepoli potessero anche non avere tra loro alcun legame. Ma nella conclusione (vv. 39-42) tutti i temi si ricollegano. Grazie alla testimonianza della donna, un buon numero di Samaritani credette in Gesù (v. 39). Accostatiglisi, lo pregarono di rimanere con loro. Quando ebbero ascoltato personalmente Gesù, furono ancora di più quelli che credettero. Dicevano alla donna: « Non è più in base alle tue parole che crediamo; l'abbiamo udito noi stessi e sappiamo che è veramente lui il Salvatore del mondo » (v. 42). Tutto l'episodio si conclude con queste parole. Esse aprono una prospettiva universale sull'opera compiuta da Gesù e sulla missione nella Chiesa.

Con l'uso di diversi titoli che, sempre di più, costituiscono un richiamo alla fede, questa pagina di s. Giovanni svela un aspetto fondamentale del mistero di Gesù. All'inizio, egli è solo un viandante sconosciuto. Ben presto, la Samaritana scopre che è un Giudeo (v. 9). Udendolo farle la strana promessa dell'acqua viva, gli chiede: «Saresti forse più grande di nostro padre Giacobbe? » (v. 12). Quando constata che ha individuato il mistero della sua vita privata, riconosce che è un profeta (v. 19). Infine, dopo la rivelazione decisiva fatta da Gesù, sospetta che potrebbe essere il Messia (v.29). Ma sono i Samaritani, primizia delle nazioni, a professare la propria fede in Gesù « Salvatore del mondo » (v. 42). Dall'inizio alla fine, questa rivelazione resta nella prospettiva messianica della storia della salvezza. Altri capitoli del vangelo rivelano che Gesù è l'inviato di Dio e il Figlio del Padre. « Messia » e « Figlio di Dio » sono i due appellativi fondamentali del credo giovanneo (20, 31). Il titolo « Salvatore del mondo », si può dire, ne costituisce la sintesi: colui che è venuto come la luce del mondo (8, 12; 12, 46), come rivelatore e come Messia, è' il Figlio Unigenito che Dio ha mandato a salvare il mondo e a far sì che ogni uomo possieda la vita eterna (3, 16-18). Per questo, s. Giovanni riprenderà questi titoli nella prima epistola, invitando i cristiani a professare la propria fede in Gesù: « E noi testimoniamo, per averlo costatato, che il Padre ha inviato suo Figlio come Salvatore del mondo. Chiunque confessa che Gesù è il Figlio di Dio, Dio rimane in lui ed egli in Dio » (1 Gv 4, 14-15).

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